Quella di Jackson e Ally è una storia travolgente fatta di contrasti, dove l’amore si combina all’umiliazione, la simbiosi alla solitudine, il successo al fallimento…
Attenzione: questa recensione svela il finale del film.
A star in born è un film che racconta la nascita di una pop star, Ally (interpretata da Lady Gaga), resa possibile grazie all’incontro con Jackson Maine (Bradley Cooper), un famoso cantante rock che diventerà presto il suo compagno di vita.
Quella di Jackson e Ally è una storia travolgente fatta di contrasti, dove l’amore si combina all’umiliazione, la simbiosi alla solitudine, il successo al fallimento, la vita alla morte.
È la storia di due anime ferite che ripongono reciprocamente nell’incontro con l’altro la speranza di curare i propri drammi, per dare spazio a dei bisogni profondi che un passato doloroso ha saputo solo calpestare.
Jackson e Ally si innamorano l’uno dell’altra fin dal primo sguardo. Come spesso accade nelle coppie, nei loro occhi c’è scritto tutto ciò che hanno bisogno di sapere per definire l’incastro relazionale. Ogni rapporto, infatti, oltre che da un patto esplicito e dichiarato, è regolato da un patto segreto in cui ognuno, inconsapevolmente, comunica al partner le proprie aspettative. E’ una comunicazione fatta di gesti, espressioni, atteggiamenti e veicola le motivazioni psicologiche e affettive che sottostanno alla propria scelta. Derivano dalla storia personale di ognuno, in particolare da ciò che si è appreso nel legame di attaccamento con le proprie figure di riferimento.
Così, se negli occhi di Jackson c’è un uomo che chiede disperatamente di essere amato e salvato, negli occhi di Ally c’è una donna che chiede di essere vista e riconosciuta. In quell’attimo, i due fanno la loro promessa: “ti darò ciò che nessuno ha saputo darti prima d’ora”. Una promessa che difficilmente può sopravvivere quando in gioco c’è un passato irrisolto che preme continuamente per trovare una via d’uscita, soffocando il presente come un’ombra che non si stacca mai.
L’angoscia di essere stato abbandonato dalla propria madre, morta quando ancora era bambino, e l’assenza di un padre che ha trovato nell’alcol la soluzione alle proprie sofferenze, è quell’ombra che Jackson non riesce a lasciare indietro nel suo cammino. Quando traumi così gravi rimangono irrisolti, una parte del Sé continua a vivere il dolore del trauma mentre altre parti si dissociano, con l’obiettivo specifico di consentire la sopravvivenza dell’individuo, proteggendolo attraverso le uniche strategie disponibili in quel momento. E dunque, a fronte di un senso di vuoto così profondo, una parte di Jackson ha imparato a proteggerlo nell’unico modo che conosceva, anestetizzando il dolore con l’alcol, bevendo fino a non sentire più nulla.
Incontrare Ally si rivela la sua salvezza e insieme la sua rovina. Lei è una ragazza cresciuta troppo in fretta che ha dovuto mettere da parte i suoi bisogni per far fronte ai doveri della vita, tanto da aspettare che cali la luce del giorno per dare spazio a se stessa e alla propria passione per la musica, vivendo una vita parallela. In lei, la spinta ad accudire è molto più forte del bisogno di essere accudita, per via, per ciò che si evince dal film, di un padre a cui ha dovuto fare da moglie e da madre.
Ally, col suo amore, sa parlare alla parte più piccola e fragile di Jack, sa risvegliare i suoi bisogni ma anche i suoi fantasmi e le sue paure. Di fronte al mutare degli eventi il loro patto non riesce ad essere mantenuto, ma nemmeno riformulato e rilanciato: il suo successo come pop star e il suo iniziare a guardare a se stessa come donna, risuona in lui come un nuovo e insopportabile abbandono.
Jackson mette in campo tutte le strategie a lui disponibili per far tacere il rumore assordante del vuoto: prima la sposa, poi si allontana, la umilia, la svaluta, si pente, si riavvicina, si rifugia nell’alcol. Questa volta, però, toccando il fondo e non riuscendo a risalire. Qui non c’entra l’amore, è che ciò che viviamo nel presente non appartiene mai davvero solo al presente.
E come purtroppo a volte accade, uscito da una clinica di disintossicazione, finalmente “ripulito” dall’alcol, lo vediamo per la prima volta vulnerabile di fronte a critiche e provocazioni, apparendo senza difese. Il rumore del vuoto, ora, non può più essere messo a tacere se non con un gesto estremo: Jackson si toglie la vita.
Un finale scioccante che lascia lo spettatore incredulo e sbalordito, come se qualcosa non tornasse. Eppure, quando un trattamento si pone come unico obiettivo quello di eliminare un comportamento, senza chiedersi da cosa stia proteggendo quel comportamento e senza curare le ferite più antiche, nelle personalità complesse e frammentate con traumi gravi questo è un rischio di cui si deve tenere conto. Non sappiamo che tipo di trattamento abbia ricevuto il protagonista del film, ma possiamo ipotizzare che sia andata così.
Le nostre parti protettive, ovvero le nostre difese, anche se si esprimono attraverso comportamenti dannosi, hanno bisogno di essere ascoltate, accolte e capite nella loro funzione e mai eliminate, perché solo così potranno successivamente trovare altre modalità più funzionali dirette al raggiungimento dello stesso obiettivo.
Ciò che resta, alla fine di questa drammatica storia, sulle note di “I’ll never love again” di Ally, è una grande amarezza ma anche la consapevolezza che ciò che davvero può liberarci dalle nostre catene non è la metamorfosi, bensì l’accettazione piena di noi stessi e del nostro passato, con la fiducia di poterci prendere cura di quella parte fragile che risiede in ognuno di noi.
Vi lascio anche a questo link il trailer del film.
Dott.ssa Elisabetta Perego
Psicologa Psicoterapeuta
Terapeuta EMDR