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Cosa vuoi fare “da grande”?

Una domanda che ha forse sempre messo un po’ in crisi, ma oggi probabilmente ancora di più. Intanto cosa vorrà mai dire “da grande”? Quando posso essere considerato “grande”? E soprattutto cosa vuol dire essere “grandi”? In passato rispondere a queste domande era abbastanza immediato grazie alla presenza di “riti di passaggio” culturalmente condivisi (pensiamo alla leva militare ad esempio), che rendevano l’entrata nel mondo adulto una strada sicura, come un sentiero di montagna ben segnalato, sulla cui correttezza non veniva nemmeno da interrogarsi. 

Oggi le cose sono molto più complesse di così. Non essendoci più una guida esterna chiara, incarnata dalla tradizione, l’unico punto di riferimento siamo noi stessi. Sembrerebbe una grande opportunità possedere finalmente tanta libertà, eppure accade che di fronte ad essa ci sentiamo incapaci. Di fatto, lo siamo! Nel senso che non essendo abituati a usare noi stessi come metro di misura, ritrovarsi a farlo non è immediato. In un certo senso, è come se culturalmente ci trovassimo in una sorta di “adolescenza generale”, dove le cose di ieri non vanno più bene, ma ancora non ne abbiamo acquisite di nuove. 

Chiaramente a pagarne lo scotto più grande sono coloro che in adolescenza ci si trovano anche anagraficamente parlando: l’adolescente inizia ad essere tale sempre prima e continua anche ad esserlo fino all’epoca dell’università, forse oltre. I manuali dicono che oggi si parla di adolescenza dagli 11 ai 25 anni, in una dilatazione che porta da una parte a precocizzare e dall’altra a incontrare gli “eterni mammoni” o “bamboccioni” come qualcuno li chiama; il linguaggio del senso comune si arricchisce dei termini più disparati, spesso velatamente dispregiativi, per definire questo fenomeno, come se fosse semplicemente una questione di “volontà”. 

Eppure, di fronte a un futuro che sembra essere continuamente rimandato e rimandabile, viene spontaneo chiedersi, quale idea di futuro abita oggi la mente dell’adolescente? Ne esiste una? 

I genitori spesso lamentano nei figli l’assenza di una progettualità, la mancanza di desiderio verso il raggiungimento di obiettivi propri, la passività, il ritiro, l’intorpidimento. La causa di tutto questo viene, a mio avviso, semplicisticamente attribuita alla perdita dei valori di un tempo, al fatto che il mondo offre loro troppo, cadendo così in una logica retrograda di sguardo nostalgico al passato, che poco aiuta però a comprendere e confrontarsi con il presente.

Gustavo Pietropolli Charmet (2014), uno dei più grandi esperti italiani di adolescenza sostiene che con essa ci si debba porre nella prospettiva di curare il futuro e credo possa essere una valida indicazione non sono per gli “addetti ai lavori”. Ha senso interrogarsi su quale sia l’idea di futuro dei giovani, perché questo può aiutare l’adulto a comprendere la specificità delle fatiche che oggi incontrano e a capire dunque come entrarvi in relazione, come essere loro d’aiuto. Molte delle problematicità che in adolescenza più facilmente possono manifestarsi, dai comportamenti a rischio (abuso di sostanze, devianza sociale, promiscuità, autolesionismo ecc.) fino all’isolamento (ritiro scolastico, rifugio nel virtuale, ecc.) possono essere lette proprio come espressione di una difficoltà a pensare il futuro e a proiettarvi un’immagine di sé positiva e desiderabile. 

Nella mia esperienza d’incontro con i ragazzi appare evidente una certa rassegnazione, tuttavia non è che gli adolescenti sognino di meno, anzi! Molti di loro hanno chiare aspirazioni di chi vorrebbero essere e cosa vorrebbero diventare, alcune anche davvero creative, ma sono profondamente sfiduciati rispetto alla strada da percorrere; non per la fatica, ma per il fatto che questa assicuri sempre meno il raggiungimento della meta. Il punto è che, tornando alla metafora iniziale del sentiero tracciato, non è più la strada a dover essere fonte di rassicurazione, non è più essa ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo, ma siamo noi a dover diventare base sicura di noi stessi. È il poter godere della libertà trasformandola in occasione per partire da sé; è il poter vedere che, se non ci sono confini chiari, invece che disperarsi si può esplorare come fossimo pionieri e ogni nostro passo può essere una traccia ben visibile lasciata nel mondo, molto più evidente di quella di chi percorre strada già battute. 

In “La fatica di diventare grandi”, piccola e recente lettura che consiglio per sua immediatezza, ho trovato alcune semplici parole dell’autore così realisticamente sconvolgenti: “il lutto per la morte del futuro costituisce l’esperienza affettiva più dolorosa da elaborare, tanto per gli adolescenti quanto per i giovani adulti.”(Aime, Charmet; 2014). Ci troviamo di fronte alla “morte del futuro”. Gli adulti, dai genitori, agli insegnanti, agli educatori, agli allenatori, agli psicologi e a chiunque incontri i ragazzi, possono essere loro di grande aiuto nell’elaborare tale perdita; tuttavia, senza scomodare letture filosofiche o antropologiche, è sufficiente osservare nel quotidiano come ad esempio la crisi economica abbia gettato l’adulto per primo in uno stato di profondo sconforto, lo stesso che senza dubbio, attraverso le varie agenzie educative (la famiglia, la scuola per prime) e di comunicazione, i ragazzi respirano. Sarebbe davvero incauto pensare che questo possa non avere una sua incidenza, soltanto perché “sono giovani”. 

Pensioni immaginate e pianificate per una vita, procrastinate a date incerte; la disoccupazione di padri e madri di famiglia; il precariato. Lo scenario paradossale è quello di un mondo in cui agli adulti non solo non è concesso di accedere alla loro vecchiaia, ma sono anche costretti a misurarsi con dilemmi diversamente tipici della giovane età. Un mondo incastrato sul presente, che non sembra poter andare né avanti né indietro e dove quindi non sembra proprio esserci spazio per chi è sulla soglia. L’adolescente è costituzionalmente orientato al futuro, lo era ieri, lo è oggi e lo sarà domani, ma quello che ha davanti a sé è uno spazio saturato da un popolo adulto a cui è “richiesto” su più fronti di essere sempre giovane, bello, competente, prestante. Di fatto, immortale. Ed è una richiesta che tende ad essere spesso acriticamente soddisfatta.

Proviamo a rifletterci un po’…

Alessandra Micheloni