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Nella prima parte dell’articolo abbiamo parlato dell’importanza del passare dal concentrarsi su quello che ci succede intorno, a ciò che avviene dentro di noi, per iniziare a riconoscersi nei meccanismi che ci coinvolgono e allo stesso tempo riappropriarsi della propria capacità di incidere su di essi.

Nel momento in cui riesco a spostare l’attenzione su quello che mi accade dentro, posso anche iniziare a chiedermi (e spesso questo accade in modo naturale) cosa posso fare io affinché i miei bisogni siano ascoltati, visti, soddisfatti, nel limite di ciò che è in mio potere?

Spesso nel rispondere a questa domanda ci si accorge di una cosa interessante, ovvero che io per primo, ignorando come mi sento davvero, ignorando i miei bisogni (perché troppo preso a guardare fuori da me), non sto facendo davvero la mia parte per raggiungere la tanto desiderata serenità.

Riprendiamo qualche esempio fatto nella prima parte dell’articolo:

  • Il mio capo richiede troppo”. Partendo dal presupposto che “troppo” sia il mio punto di vista e assumendolo pertanto come mia verità, sono certo che il mio capo lo sappia? Oppure forse sto facendo salti mortali da tempo, magari rimettendoci persino in salute, per adempiere comunque a quella che sento essere una richiesta eccessiva?  Se mi dico “è troppo”, ma poi quel “troppo” in qualche modo lo soddisfo lo stesso per evitare conseguenze, il risultato sarà che quel limite per il mio capo resterà invisibile, perché in effetti io per primo sto facendo di tutto per non farglielo vedere. Ciò non nuocerà solamente a me, ma in verità nuocerà presto a tutta l’azienda.

 

  • Il mio collega non si assume le sue responsabilità e tutto ricade su di me”. Vale quanto detto nell’esempio precedente. Ho mai provato a dire “NO”? Ho mai provato a non correre immediatamente a riparare una mancanza altrui pur di portare a termine un progetto nei tempi previsti? Ho mai provato a non assumermi una responsabilità che non sento mia?

 

  • Sono sottopagato”. Facciamo finta che il tentativo della richiesta di aumento tu l’abbia già tentato senza successo (in caso contrario chiaramente sarebbe il primo tentativo da fare…le cose non cadono dal cielo!). Che effetto ha avuto su di te il rifiuto di un aumento? È stata una spinta a brillare ancora di più, facendo vedere il tuo valore, oppure ti sei demoralizzato e affossato sull’idea di fare lo stretto indispensabile perché tanto tutto sarà inutile? A volte, senza rendercene conto, assumiamo atteggiamenti che poi ci allontanano solamente da ciò che realmente desideriamo.

 

  • Quel collega è proprio antipatico”. Qui il livello di complessità aumenta e sicuramente sarebbe importante provare a chiedersi perché quel collega mi fa quell’effetto, quali corde tocca dentro di me, se è accaduto qualcosa in passato oppure si tratta solo di poco feeling; qualunque sia la condizione, anche qui è fondamentale osservarsi in quella relazione. Come mi pongo io con lui alla luce del mio pensiero “è antipatico!”? Spesso quando una persona ci sta antipatica per così dire, si innesca una reazione a catena che ci coinvolge in prima persona senza che nemmeno ce ne accorgiamo: più vedo l’altro in chiusura, più lo sono anche io, più la sua chiusura si rinforza e così anche la mia, in una spirale senza fine che chiamiamo Black Wave (leggi l’articolo di Monica Crivelli per saperne di più). In questi casi perdiamo di vista la possibilità di essere noi a iniziare con un sorriso uno scambio, di cercare noi gli occhi dell’altro quando lui distoglie lo sguardo, di porci noi con parole gentili, di fare noi insomma il primo passo. Qualcuno potrebbe pensare: ma perché devo essere sempre io a fare il primo passo? Non può farlo l’altro? Forse sì, sarebbe bello e magari accadrà perfino, ma ricorda che qui stiamo parlando di ciò che renderebbe più sereno te, quindi ricorda per chi davvero faresti quel primo passo. Non per l’altro, ma per te.

 

Questi sono soltanto alcuni esempi che rappresentano un punto focale della consapevolezza di sé, in ambito lavorativo e non, che in altri termini consiste nel porsi questa semplice domanda: qual è la mia parte in ciò che mi accade?

Perché benché ci sia qualcuno dall’altra parte, troppo spesso ci dimentichiamo che insieme a lui ci siamo anche noi. Non si tratta di attribuire colpe, ma di accorgersi di un fatto ovvio e imprescindibile: noi siamo parte costitutiva e attiva di ciò che viviamo.

Dopo essermi assunto il mio sentire, aver capito il mio bisogno, essermi chiesto cosa sto facendo o al contrario non sto facendo per tendere a soddisfarlo, arriva il momento della facoltà di esprimersi e chiedere.

A volte infatti agire sul proprio atteggiamento non è sufficiente per modificare qualcosa che non mi fa stare bene, ma la consapevolezza mi dà in più la possibilità di comunicare in modo autentico ed efficace rispetto a ciò che per me è importante.

Concludendo, ritengo opportuno sottolineare che questa prospettiva, che rimette il soggetto al centro, non garantisce che le cose andranno esattamente come io le vorrei, ma sicuramente innalzerà al massimo la probabilità che ciò accada; magari non portandoci precisamente a quella meta che avevamo pensato, ma avvicinandoci ad essa il più possibile, passo dopo passo.

Dott.ssa Alessandra Micheloni