La mindfulness e gli interventi basati sulla mindfulness si sono dimostrati di significativa efficacia nel ridurre lo stress, l’ansia, la depressione e il dolore cronico.
Ma in che modo lo fanno? Come agiscono? E soprattutto, è possibile osservare in modo preciso l’impatto che le pratiche di mindfulness (consapevolezza non giudicante dell’esperienza del momento presente) hanno sulla mente di chi medita?
I benefici clinici correlati a tale tipo di interventi sono, ad oggi, ormai largamente supportati da un crescente numero di studi scientifici. Tuttavia, quello che fino agli ultimi anni non era noto era proprio come di preciso la pratica della mindfulness potesse portare a tali benefici. Recenti studi di neuro-immagine (come la risonanza magnetica) volti ad investigare cosa avviene nel cervello di chi pratica la mindfulness stanno finalmente spiegando le basi neurobiologiche dell’efficacia di tali meditazioni.
Gran parte della psicologica occidentale concorda sul fatto che la maggior parte del disagio emotivo che quotidianamente sperimentiamo e che, in alcuni casi, può trasformarsi in disturbi psicologici o psicosomatici quali la depressione, l’ansia o il dolore cronico, sia largamente dovuto a una difficoltà nelle capacità di regolare le proprie emozioni. Già da decenni gli scienziati sanno che sia gli animali e gli essere umani condividono, nella parta più profonda e antica del cervello, un sistema di reazione automatica che si attiva di fronte alle minacce, spingendoci ad attivare una reazione di lotta o fuga di fronte a tali minacce. Tale reazione avrebbe sede in una zona chiamata amigdala. È anche stato dimostrato che tutti abbiamo una capacità, più o meno sviluppata, di regolare tale sistema attraverso la parte più evoluta del cervello, in particolar modo tramite una zona del cervello situata dietro la fronte chiamata corteccia prefrontale.
Negli ultimi 10 anni si è visto che già brevi corsi di mindfulness della durata di 8 settimane sono in grado di attivare maggiormente la corteccia prefrontale in situazioni che richiedono una regolazione emotiva. Tale maggiore attivazione va a ridurre l’attivazione dell’amigdala, aiutando quindi il praticante di mindfulness, già dopo poche settimane, a regolare più velocemente le proprie emozioni disturbanti come l’ansia o la rabbia. Nel caso di chi pratica la mindfulnes per lungo tempo si assiste addirittura allo sviluppo di un meccanismo ancora più incredibile: In particolare, in risposta a stimoli emotivamente stressanti, si osserverebbe solamente una modesta attivazione delle aree cerebrali associate alla genesi delle emozioni disturbanti, come l’amigdala, senza che sia più necessario alcuno sforzo attivo da parte della corteccia prefrontale per regolarle.
In altre parole, in accordo con quanto da sempre sostenuto dalle tradizioni in cui le pratiche di mindfulness si sono originariamente sviluppate, questi recenti studi mostrano che già nel breve termine la mindfulness può essere un prezioso strumento per regolare le proprie emozioni. Nel lungo termine addirittura le pratiche di mindfulness favorirebbero l’emergere di uno stato di calma e serenità che diviene una caratteristica stabile della personalità di chi ha portato avanti per anni tali pratiche.
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Alberto Chiesa