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La consapevolezza di sé è un concetto vasto, complesso, composto da vari livelli di profondità che vanno dalla consapevolezza del proprio agire, alla consapevolezza del proprio pensiero sottostante, fino alla consapevolezza delle emozioni e dei vissuti che guidano il comportamento stesso. A ciò si aggiungerebbe poi la comprensione del “perché” agisco, penso e sento proprio in quel certo modo, procedendo così nella direzione di uno sguardo sempre più fine, analitico, complesso verso la propria soggettività.

L’intervento psicologico nei contesti lavorativi non può certamente occuparsi della consapevolezza di sé nella sua accezione più profonda e sottile, ma certamente può e credo debba favorire l’avvio di un processo che porti l’individuo a cogliersi sempre di più in quello che gli accade, restituendogli così la capacità di agire per il proprio benessere.

Nella prima e nella seconda parte di questo articolo proveremo a fare qualche esempio di cosa significhi puntare sulla consapevolezza di sé nell’ambiente lavorativo, mettendo in luce come questa prospettiva possa rivelarsi una chiave vincente per la propria serenità.

A tutti sarà capitato almeno una volta nella vita di non sentirsi sereni, a proprio agio, sul luogo di lavoro. Per qualcuno si è magari trattato di un periodo circoscritto, per altri invece di una condizione costante che forse a un certo punto, ha anche portato alla scelta di cambiare.

Se provassimo a portare per un istante la nostra mente a quei momenti, che magari stiamo vivendo proprio ora, mentre leggiamo queste parole e provassimo a chiederci “cosa c’è che non va?”, probabilmente inizieremmo a darci risposte come ad esempio: “il mio capo richiede troppo”, “il mio collega non si assume le sue responsabilità e tutto ricade su di me”, “sono sottopagato”, “quel collega è proprio antipatico” ecc. Insomma, ci metteremmo con ogni probabilità a descrivere tutto quello che intorno a noi non funziona, con tutto il senso di frustrazione e di impotenza che questo modo di vedere porta con sé.

In effetti è così: il capo non lo posso cambiare, i colleghi nemmeno, la mole di lavoro neanche e forse poco potrò fare anche rispetto al mio stipendio. Quando mi concentro sul “fuori” e direziono lì le mie energie, metto l’attenzione su qualcosa che è fuori, per l’appunto, dal mio controllo.

Magari è vero che il capo mi chiede troppo, che il collega è poco cordiale e si dà poco da fare, che il mio stipendio non è commisurato al mio impiego, ma se ci pensiamo bene di chi è l’insoddisfazione? Chi è il soggetto non sereno e non a proprio agio? Chi vorrebbe che le cose andassero in un modo diverso? La risposta è molto semplice: IO.

Assumermi la responsabilità di ciò che provo, riconoscermi nel mio sentire (stanco, sottostimato, sovraccaricato, demotivato ecc.) è il primo importante passo da compiere se desidero migliorare la situazione. Passare dal dire: “lui/lei mi fa sentire/mi tratta così” al “io mi sento/io mi lascio trattare così”.

Questo spostamento di focus, dal fuori al “dentro”, mi aiuta a capire innanzitutto davvero cosa sento, ad andare oltre la rabbia e la frustrazione per capire di cosa queste emozioni mi stanno veramente parlando: demotivazione? Sensazione di non sentirmi valorizzato? Sensazione di essere schiacciato dagli altri? E in secondo luogo questo mi aiuta a capire di cosa ho bisogno per tornare a stare bene o iniziare a stare bene.

Dott.ssa Alessandra Micheloni